L'intervento della pandemia ha sicuramente alterato taluni aspetti dell'economia e il normale svilupparsi delle fattispecie contrattuali che giornalmente ci accingiamo a concludere.
Fare la spesa, acquistare beni e servizi di prima necessità ci hanno visto non più protagonisti in prima persona.
Ob torto collo, per rifornire le nostre dispense abbiamo dovuto delegare qualcun altro a cause delle restrizioni che ci hanno confinato tra le mura domestiche.
La permanenza forzata in casa, dopo esserci cimentati negli impasti più fantasiosi per pizze e torte con risultati più o meno commestibili, non ci ha tolto la voglia di gustare un'ottima pizza, un succulento hamburger o un piatto di lasagne fatto a dovere.
Infatti dal mese di marzo del 2020 si è potuto assistere a un'impennata dei servizi di food delivery.
Basta scaricare una semplice app e si ha tutto a portata di mano, anzi di dito poiché con qualche click in pochi minuti è possibile assaporare tutti i piatti delle cucine di mezzo mondo.
Il gesto è semplice, veloce, quasi diventato un automatismo ma dobbiamo pensare che in quel preciso istante non stiamo concludendo un vero e proprio contratto.
Ora, sappiamo davvero tutto del piatto che stiamo ordinando?
Le informazioni che ci vengono date sono complete con riguardo a ingredienti, allergeni e clausole di esonero di responsabilità?
Abbiamo analizzato quattro tra le più famose piattaforme di food delivery e siamo rimasti soddisfatti dalla completezza delle informazioni rese.
Dobbiamo però anche rappresentare come, in uno sparuto numero di casi, ci si sia trovati dinanzi a un vero e proprio casus di “asimmetria informativa”.
È quel fenomeno, elaborato da dottrina e giurisprudenza in cui un'informazione non è condivisa integralmente fra gli individui facenti parte del contratto: dunque una parte degli agenti interessati dispone di maggiori informazioni rispetto al resto dei partecipanti e può trarre un vantaggio da questa configurazione di disequilibrio.
Tale decremento informativo, oltre che sotto l'aspetto meramente contrattuale, può avere sensibili refluenze sulle scelte del consumatore, basti pensare alla presenza di allergeni all'interno di una pietanza.
Il fatto di riportare la dicitura sulle condizioni generali di contratto “alcuni piatti possono contenere allergeni”, assolve l'obbligo di informazione previsto dal Regolamento UE 1169/2011?
Il Regolamento (UE) 1169/2011 raccoglie in un unico testo le norme in tema di etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari, etichetta nutrizionale e informazione sulla presenza di ingredienti allergenici sui piatti/prodotti venduti sfusi.
Tale Regolamento riguarda, tutti gli alimenti e cibi venduti e/o somministrati al consumatore finale “sfusi”, non preconfezionati, ossia senza pre imballaggio o pre incartati al momento della vendita su richiesta dello stesso consumatore.
Le informazioni obbligatorie (es. menu allergeni ristorante o agenda degli allergeni) dovranno essere apposte in un punto evidente al consumatore finale in modo da essere facilmente visibili, chiaramente leggibili e indelebili.
Tra le informazioni obbligatorie del Reg. (UE) 1169/2011 da fornire al consumatore, non vi è solamente l’elenco degli allergeni o la lista allergeni, ma anche di qualsiasi ingrediente o coadiuvante tecnologico che provochi allergie o intolleranze usato nella preparazione di alimenti, anche se in forma alterata.
Ora la predetta disciplina, in vigore nel nostro paese dal 2014 e novellata nel 2018 ben si adatta ai luoghi fisici ma quando si ordina un piatto tramite un servizio di food delivery?
È necessario, per rispettare i dettami regolamentari di cui sopra, che ciascun esercizio, nella propria vetrina e nella descrizione del prodotto indichi tutti gli ingredienti utilizzati e la presenza di allergeni.
Nell'era digitale, la c.d. asimmetria informativa viene colmata dalla dinamicità del consumatore.
Il concetto di individuo mediamente informato estrapolato dalla direttiva comunitaria 93/13/CE attuata con la legge 6 febbraio 1996 n. 52, è ormai ben datato nonostante i continui interventi del legislatore nazionale.
Oggi il consumatore è avveduto, informato ed attento alle proprie scelte negli acquisti inerenti il settore agroalimentare.
La massaia di Voghera sta lasciando il posto a dei consumatori muniti di smartphone e lettore qr code, attraverso il quale attenzionano, studiano e scelgono il prodotto a loro più confacente.
È doveroso a tale punto porre l'attenzione sul criterio di ripartizione della responsabilità in caso di danno al consumatore.
Chi risponderà del danno sofferto dall'utente finale nei contratti di food delivery?
Il venditore oppure la piattaforma digitale attraverso la quale abbia acquistato il cibo?
Lo scopriremo nelle prossime puntate...
avv. Dario Genovese, ODAV Sicilia
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